lunedì 15 aprile 2024

L'arte, i sogni, i ricordi

Qualche anno fa ebbi l’occasione di visitare una mostra a Brescia, nelle sale della Pinacoteca Tosio Martinengo erano esposti numerosi dipinti “raccolti” tra le numerose collezioni private della provincia omonima.

Cesare Bortolotti - Castagno secolare, 1904 - Olio su tela cm 95 x 130 - Collezione privata

Il titolo dice: “Picasso, De Chirico, Morandi, 100 capolavori del XIX e XX secolo dalle collezioni private bresciane”, naturalmente i nomi di spicco sono quelli che appaiono nel titolo ma è l’intero percorso, dove artisti celebri si accompagnano ad altri meno conosciuti, ad essere particolarmente affascinante.

Seguendo la guida che ci illustrava le varie opere lo sguardo mi cade su un dipinto che si inseriva perfettamente nel contesto della sala, sulle pareti erano appesi numerosi paesaggi, il rischio di passare inosservato era alto, quantomeno c'era la possibilità che il resto lo inglobasse.

La mia prima reazione, immediata, sta nella frase che ho detto a mia moglie: “mi sembra di essere tornato a Paspardo”.

Paspardo è un piccolo comune della Valle Camonica in cui ho vissuto dall’età di sette anni fino al compimento dei 14, la scena, ma soprattutto il paesaggio del quadro mi ha riportato agli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, avevo la sensazione di essere stato proprio nel posto “raccontato dal dipinto.

Ad un certo punto la guida prende in considerazione proprio quest’opera e le prime parole sono state: “Cesare Bertolotti con questo quadro racconta i boschi di castagno che, a tutt’oggi, circondano il paese di Paspardo”.

Dunque non si trattava di suggestione ma quel posto era veramente il luogo che conoscevo, in cui ho vissuto fino a quarant’anni  prima, i castagni, le rocce, bianche, ora ne sono certo, so esattamente dove Bertolotti si è fermato a dipingere quello scorcio.

La tecnica non perfetta trasmette una sensazione di leggerezza poetica, non è la fotografia di un luogo, è la proiezione di sensazioni intense legate a quel posto, la poesia che emerge da quella donna che con la “gerla” colma d’erba fa ritorno a casa, ed è proprio il ritorno il tema che il mio vissuto percepisce dal dipinto.

In quell’istante vengo proiettato indietro nel tempo, non è l’istantanea di quella località a permettermi il viaggio, è la poesia dell’arte a tracciare la via.

Pensare che un dipinto del 1905 sappia, nel 2019, aprire un portale che porta al 1975 ...  

mercoledì 10 aprile 2024

L'eterogeneo universo dell'arte (al di là dei riferimenti personali)

“In realtà Hopper è semplicemente un cattivo pittore, ma se fosse un pittore migliore, probabilmente non sarebbe un artista cosi grande”.


Edward Hopper – Gas, 1940 – Olio su tela cm 66,7 x 102,2 – The Museum of Modern Art (MoMA) New York 

Questa frase, apparentemente paradossale, di Clement Greenberg, mi spinge all’ennesima riflessione: è sempre più evidente che non tutti quelli che dipingono si possono definire pittori, a maggior ragione sono pochi i pittori che si possono definire artisti.

L’illusoria semplicità, un “disordine” tecnico o una cromia “sporca”, o al contrario, la complessità descrittiva, una tecnica inappuntabile o una pulizia assoluta, non sono un parametro sufficiente per considerare o meno “artista” chi si dedica alla pittura.

L’artista è colui che “dice” quello che fino ad allora nessuno aveva nemmeno pensato.

Hopper sicuramente non è un cattivo pittore (come sostiene provocatoriamente Greenberg) ma non possiamo nemmeno definirlo un’eccellenza tecnica, Hopper è un artista che tramite la pittura ha “detto” qualcosa che fino ad allora nessuno aveva pensato di fare.

Ha raccontato l’animo umano come nessuno aveva fatto fino ad allora, ne ha mostrato le debolezze, ha dato volto alla solitudine, ha descritto la “strada” della modernità dal punto di vista delle emozioni o della limitazione delle stesse.

Se il pittore americano è riuscito ad entrare negli occhi e nel cuore di moltissimi appassionati d’arte non è per la sua tecnica pittorica ma per la capacità di comunicare, attraverso le sue opere, con l’osservatore in cerca di sé stesso, grazie ad un linguaggio solo apparentemente semplice ma estremamente efficace.

 

venerdì 5 aprile 2024

L'arte in movimento

L’arte deve viaggiare o deve essere meta di un viaggio?

Giovanni Bellini (con intervento sul paesaggio di Dosso Dossi e Tiziano Vecelio) - Festino degli dei, 1514 – Olio su tela cm 170 x 188 – National Gallery of Art, Washington


Da tempo si discute sulla libera circolazione delle opere d’arte, è il caso di farle circolare per i cinque continenti o fare in modo che siano visibili nelle loro “cattedrali”?

In entrambi i casi c’è un beneficio ed il naturale “altro lato della medaglia”.

Le opere in movimento darebbero la possibilità a chi non può viaggiare di poterle ammirare, ma non è da sottovalutare il rischio (altissimo) di danneggiamento per non parlare di un deterioramento che le condannerebbe all’oblio.

Se restano definitivamente nei loro luoghi abituali si riduce sensibilmente il numero di persone che possono ammirarle ma, oltre al discorso conservativo, si aggiunge l’importanza della visita legata alle culture che le ospitano.

In molti sono convinti che le opere d’arte debbano “risiedere” nel paese dove sono state realizzate, questo però impedirebbe uno scambio artistico e culturale che reputo fondamentale.

Un dipinto realizzato in Italia da un pittore italiano ha il diritto di “prendere casa” negli Stati Uniti, in Asia o in Sudamerica, naturalmente il discorso cambia per quelle opere che sono state trafugate da paesi, che si dichiarano “civili”, a scapito di altri popoli indifesi.

Oggi, al netto di tante opere che andrebbero restituite, abbiamo l'infinita opportunità di ammirare dipinti, sculture e fotografie di paesi lontani esposte, legalmente, in altri luoghi in giro per il mondo.

A Parigi, Londra, Cracovia, Washinton, si possono ammirare quadri di Leonardo da Vinci, questo permette di osservare le opere del grande artista toscano senza doversi recare in Italia, noi possiamo fare altrettanto con Pollock senza l'incombenza di attraversare l’Atlantico (questo è solo un esempio tra moltissimi altri).

Non so quale sia la scelta ideale, forse la via di mezzo è la scelta più logica, peraltro già attuata, il movimento limitato a mostre particolari che riuniscono le opere di un singolo artista.

sabato 30 marzo 2024

Un altro sguardo sull'ultima cena

A Barcellona, sulla “Facciata della Passione” del Tempio Espiatorio della Sacra Famiglia, universalmente conosciuto come Sagrada Familia, possiamo ammirare il favoloso Ciclo della Passione realizzato dallo scultore catalano Josep Maria Subirachs.


La serie di sculture inizia nel 1987 e si conclude nel 2009, l’incontro tra Gesù e gli apostoli che da il via alla Passione è la prima opera del ciclo stesso.

Sull’ultima cena l’arte si è esibita praticamente da sempre, le tredici figure sono rappresentate in modi e contesti differenti, alcuni dipinti, alcune sculture, sono diventati iconici, parte della storia stessa dell’arte.

Lo schema di quest’opera riesce ad essere differente, anche se non unico, Gesù, normalmente è inserito al centro con gli apostoli di fianco, se questi ultimi non sono allineati con il Cristo sono rappresentati di spalle, il Figlio di Dio è sempre di fronte all’osservatore.

In questo caso da le spalle alla gente e si rivolge esclusivamente ai propri amici (che poi altro non sono che un sunto dell’umanità intera) in particolare posa lo sguardo su Giuda, quello che più di altri rappresenta l’uomo nella sua “povertà”, infatti la targa, in catalano, riporta le parole che Gesù rivolge a Giuda: “ quello che devi fare fallo al più presto” (in catalano: “più in fretta”).

Non intendo approfondire l’Ultima cena in quanto tale, vorrei solo lasciarvi alle suggestioni che quest’opera ci regala, l’ennesima visione che lascia da parte i canoni regalandoci un altro punto di vista.



lunedì 25 marzo 2024

La materia e il linguaggio interpretativo

In una trasmissione televisiva (ebbene si, ci sono ancora programmi di alto livello) è stato formulato un interessante quesito: “ la matematica è un’invenzione dell’uomo o una scoperta in quanto già esistente?”.


Jacopo de Barbari (attribuito) – Ritratto di Luca Pacioli, 1495 ca. – Olio su tavola cm 99 x 120 - Museo Nazionale di Capodimonte, Napoli


Durante la trasmissione sono comparsi altri “particolari” che hanno indirizzato le ipotesi verso quella che potrebbe essere la strada giusta, la matematica è il linguaggio che permette all’umanità di comprendere sé stessa e ciò che la circonda.

Questo non risponderebbe alla prima domanda ma darebbe vita ad altri interrogativi, se la terza ipotesi è la più verosimile le prime due passano in secondo piano (momentaneamente).

Dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, dalle cellule alle galassie, ogni cosa viene compresa grazie alla matematica.

Considerato il livello di conoscenza della matematica stessa dell’uomo medio chi è veramente in grado di “conoscere sé stesso”? Perché senza la conoscenza di sé è impossibile comprendere “l’altro”.

Ma “l’altro” non sono solo le persone che incontriamo, “l’altro” è tutto ciò che ci circonda.

La matematica ci permette di “misurare” la materia di cui è composto il nostro mondo, è in grado di misurare le emozioni, le sensazioni positive e quelle negative?

La matematica ci può aiutare a comprendere la musica, la poesia, la pittura e qualsivoglia proiezione dell’essenza dell’uomo?

Siamo i figli della matematica o ne siamo la genesi?

 

mercoledì 20 marzo 2024

il contrario di "Arte"

Qualche giorno fa, parlando con l’unica persona che mi sopporta, cioè me stesso (anche se spesso non ci rivolgiamo la parola) mi sono posto una domanda: cos’è o come possiamo definire il contrario di arte?

Foto di Edward Steichen – Auguste Rodin osserva il “Pensatore”

Ogni dizionario dei sinonimi e dei contrari ne dà una definizione diversa, cartacei o elettronici hanno visioni simili ma espresse in maniera leggermente differente.

Ad esempio lo Zingarelli “vede” il contrario di arte partendo dal presupposto che arte sia un sinonimo di artificioso (cosa effettivamente vera ma che esula dalla considerazione artistica come espressione spirituale).

La Treccani online parla anch’essa di arte come: “artificio, bravura, talento” ma alla voce contrari ecco che appare. “incapacità, inettitudine”.

Ma come potevo accontentarmi di tutto questo che, pur riconoscendo il valore, non da una risposta? L’arte è qualcosa di più alto, di più profondo, è difficile, se non impossibile, darne una definizione, figuriamoci per il contrario.

L’altra sera però la risposta è arrivata, un giovane amico, calciatore dilettante mi invita a vederlo giocare, lui milita in una squadra di un comune più lontano e la sfida era con la compagine di un altro centro poco distante da dove risiedo e che ospitava l’incontro, “quando vengo a giocare vicino a casa tua vieni a vedermi?”. Cosi è stato.

Mi piace il calcio ma non gradisco l’ambiente che sta attorno ai capetti dilettantistici (non che a livello professionistico le cose siano migliori anzi) dunque mi preparo al peggio.

Nonostante fossi partito prevenuto, che mi aspettassi una cornice fatta di squallore e becerume, le persone assiepate sugli spalti sono riuscite a sorprendermi, erano presenti individui dall’età più disparata, si partiva dai quindicenni fino ai settantenni, maschi e femmine (anche se i primi si facevano notare maggiormente) che per tutto il tempo della partita si sono esibiti in ululati, insulti, bestemmie e ogni genere di abominio linguistico. Con tutta onestà va riconosciuto che c’era anche qualche essere civile, categoria che, come spesso accade, se ne sta in silenzio.

In quelle due ore ho realizzato che il contrario di arte era proprio quello in cui ero immerso, maleducazione, incapacità di vedere con obbiettività, mancanza di rispetto per il pensiero altrui, linguaggio, moralmente e grammaticalmente indecente. Se l’arte è bellezza, idee, poesia e introspezione, il suo contrario non può non essere quello che ho visto quella sera.

La risposta certa al quesito che io e me stesso ci siamo posti non esiste, ma una parziale forse si: il contrario di arte si potrebbe riassumere in una tribuna di un campo di calcio.

venerdì 15 marzo 2024

L'architettura tra arte e ...

«L’architettura non è un’arte, poiché qualsiasi cosa serva ad uno scopo va esclusa dalla sfera dell’arte»

Adolf Loos, architetto austriaco, cerca di mettere un confine tra l’architettura “artistica” e quella pratica.

Sosteneva infatti che nell’architettura «è il concetto che può arte, non la costruzione in sé».

Muller house (1930) a Praga by Adolf Loos

Non è certo mia intenzione avvalorare o confutare questo punto di vista ma trovo interessante prenderlo in considerazione.

Chi mi conosce potrebbe sostenere che avvalorare questa ipotesi sarebbe un modo di affermare il mio pensiero, l’arte è soprattutto concetto.

Se è complesso trovare un equilibrio, ed impossibile avere una risposta, non è meno complicato stabilire il baricentro nella congettura di Loos.

Ogni abitazione, singola o meno, ha il compito di rendere il più possibile confortevole la vita di chi vi dimora, ripararci dal freddo, dal caldo, dalle intemperie, e da tutto ciò che ci è ostile, questi sono i compiti basilari di una casa.

Poi ci sono le cosiddette comodità, dove la bellezza, il piacere dell’abitare emergono, non sono vitali ma aiutano a vivere meglio.

Tutto questo non è automaticamente arte anzi, non lo è mai, cos’è allora che rende artistica l’architettura?

Loos dice che è il “concetto”, il pensiero, che vale per qualsiasi forma d’arte, che vede oltre il visibile.

Spesso è considerato “artisticamente meraviglioso” tutto ciò che è di grandi dimensioni, stadi, palazzi sempre più alti, costruzioni sempre più imponenti, ma l’arte non può essere questo, l’artista spinge lo sguardo più lontano, concettualmente non materialmente, ecco perché un grattacielo alto più di 500 metri non è arte per la sua imponenza, lo può essere ma per farlo deve spingersi nel futuro, pur poggiando le sue basi nel presente.


domenica 10 marzo 2024

50 anni in "Compagnia", da Sannia a Vasco passando per Battisti, Parodi e Mina

La Compagnia, un brano scritto dal duo Mogol-Donida nel 1969 per la voce di Marisa Sannia, passato sotto traccia ottiene una discreta fama nel 1976 quando ad interpretarlo è Lucio Battisti.

La cover del 45 giri originale

Nel 1982 è il gruppo sardo Il coro degli angeli ad inciderlo, due anni dopo tocca ai Tazenda (in entrambi i casi con la voce di Andrea Parodi) nel 1988 tocca a Mina.

Quasi vent’anno dopo, siamo nel 2007, è Vasco Rossi a rilanciare il brano, un pezzo che nonostante il testo e le musiche di grande spessore, oltre all’interpretazione di grandi interpreti, non riuscirà mai a decollare definitivamente.

Lascio ad ognuno il giudizio sulla canzone e mi concentro sulla percezione del pubblico, almeno di chi la conosce, e delle differenti interpretazioni e arrangiamenti che si sono susseguiti in mezzo secolo.

I più giovani partono dal pezzo di Vasco Rossi e andando a ritroso nel tempo rischiano di rimanere spiazzati dalle versioni più soft del passato, chi invece ricorda gli esordi della Sannia fatica a comprendere lo stravolgimento degli artisti che l’hanno eseguita in seguito.

Scritta appunto per Marisa Sannia l’originale mostra gli anni che ha e ci riporta ad un periodo dove erano in atto dei cambiamenti epocali ma dove certa musica italiana sembrava non accorgersi.

Lucio Battisti non ha bisogno di presentazioni, è uno dei più grandi artisti in assoluto ma ascoltando attentamente il pezzo in questione possiamo capire perché non è uno dei suoi pezzi più riusciti, anche i grandi non sono infallibili, questa canzone non è nelle sue corde, si nota uno sforzo innaturale che sminuisce sia il cantante che la canzone.

Nonostante la voce eccelsa di Andrea Parodi anche le versioni dei primi anni ottanta passano senza lasciare segni evidenti, questo conferma (se ce ne fosse stato bisogno dopo Battisti) che il brano è tutt’altro che semplice, o lo si disegna su misura o il rischio è quello di naufragare.

Il primo serio tentativo è quello di Mina, altro mostro sacro, che trasforma la canzone con un arrangiamento blues, dove a tratti veniamo avvolti da un’atmosfera da ballata jazz, in questo caso il pubblico si divide, gli amanti di Mina lo definiscono un capolavoro, i suoi detrattori: “un pezzo da dimenticare”.

Passano 19 anni e a riproporre il brano ci pensa Vasco Rossi, premetto che la mia stima per il cantante di Zocca è vicina allo zero, ma dal mio punto di vista è questa la versione che più mi convince, riesce a dare un’anima ad un pezzo che sembrava averla smarrita, un arrangiamento più rock (per quanto riesca ad essere rock la musica di Vasco) che finalmente trova il suo abitat naturale.

Non possiamo però ignorare che siamo di fronte  ad un arco temporale molto ampio, il mio punto di vista potrebbe far pensare che Mogol e Donida avessero scritto una canzone in anticipo sul tempo, ma è altresì fondamentale considerare che il nostro vissuto e il nostro contemporaneo hanno intrapreso una strada diversa da quella che, per chi c’era, veniva percorsa negli anni settanta.

Inoltre devono essere presi in considerazione i gusti personali, le simpatie per i vari interpreti (anche se queste ultime, per quanto mi riguarda, non influiscono minimamente sul giudizio) e gli stati d'animo del momento in cui ascoltiamo il brano, indipendentemente da chi lo propone.

Qualcuno dirà che in fondo si tratta solo di canzoni ma, come in ogni altro ambito artistico, fermarsi al primo ascolto potrebbe essere un’occasione persa.